1. Istruzione e sviluppo
Nel secondo dopoguerra l’Italia si avviò su un sentiero di sviluppo sostenuto e lo percorse per più di un quarto di secolo. Venne recuperata una parte cospicua del ritardo nei confronti dei paesi con più elevati livelli di benessere economico. Lo sviluppo, pur connotato da
tensioni sociali e conflitti distributivi, a tratti acuti, beneficiò di diversi fattori, interni ed esterni, che consentirono di conseguire fortissimi guadagni di produttività. Vennero impiegate crescenti risorse nei settori a più elevato prodotto per addetto, prima largamente sottoutilizzate nel comparto primario, completandola transizione verso un’economia industriale. La crescita dell’economia, di durata e intensità senza precedenti nel nostro paese, fu accompagnata
da un innalzamento progressivo del livello di istruzione della popolazione, che seppe combinarsi efficacemente con lo stato delle conoscenze tecnologiche.
Dagli anni novanta l’irruzione delle economie emergenti sui mercati internazionali, l’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le biotecnologie, le tecnologie dei materiali sottili mutano radicalmente le caratteristiche dello sviluppo economico a livello globale. Hanno disegnato nuove gerarchie, rivoluzionato i processi produttivi, modificato in modo sostanziale, soprattutto nei paesi avanzati, le caratteristiche dell’input di lavoro domandato dalle imprese. Ha preso nuova forza quell’ampio filone della letteratura economica che da tempo è volto a riflettere sul nesso fra istruzione e sviluppo.
A grandi linee, il livello di istruzione riveste un peso determinante nello spiegare i processi di crescita economica sotto due fondamentali profili
Il primo attiene al miglioramento delle conoscenze applicate alla produzione: l’accumulazione di capitale umano alimenta l’efficienza produttiva, sospinge la remunerazione del lavoro e degli altri fattori produttivi. Questo motore della crescita diviene ancora più rilevante nelle fasi caratterizzate da rapido progresso tecnico. Edmund Phelps notava fin dagli anni sessanta come l’acquisizione di un livello avanzato di conoscenze sia condizione essenziale per innovare e per adattarsi
alle nuove tecnologie. La dotazione di capitale umano assume un valore cruciale che trascende chi ne usufruisce in prima istanza: essa promuove la generazione e la diffusione di nuove idee che danno impulso al progresso tecnico; migliora le prospettive di remunerazione e, chiudendo il circolo virtuoso, accresce l’incentivo all’ulteriore investimento in capitale umano.
Il sistema di istruzione quale fonte primaria di accumulazione di questo tipo di capitale produce esternalità rilevanti, che contribuiscono a innalzare le prospettive di crescita dell’intera
economia. È, questa, una delle intuizioni più interessanti delle “nuove” teorie della crescita endogena. Secondo alcune stime, il rendimento sociale dell’istruzione è superiore al rendimento privato, cioè ai più elevati benefici di cui gode chi possiede una maggiore e migliore istruzione.
Ma le esternalità, e veniamo al secondo profilo, non si limitano all’ambito strettamente produttivo: incidono sullo stesso contesto sociale, contribuendo anche per questa via alla crescita economica. Questo aspetto è stato analizzato soprattutto in relazione ai paesi in via di sviluppo, ma concerne naturalmente anche le società avanzate. Da tempo il pensiero economico, e non solo, sottolinea come le proprietà di efficienza dei mercati in una economia non possano prescindere dal
“capitale sociale”, definito come l’insieme delle istituzioni, delle norme sociali di fiducia e reciprocità nelle reti di relazioni formali e informali, che favoriscono l’azione collettiva e
costituiscono una risorsa per la creazione di benessere. A livello aggregato il capitale sociale, distinto dal capitale umano a cui pure è collegato, è un fattore di sviluppo umano, sociale,
economico. Esso è il sistema di valori condiviso, che garantisce il senso di responsabilità verso gli impegni assunti dalle parti nella formazione di un contratto. Questi valori rappresentano un tratto dell’identità di un paese, che si fissa nel lungo periodo, per via di consuetudini e
principi che si tramandano di generazione in generazione. Il sistema di istruzione può arricchire questa eredità, accrescendone le opportunità, attenuandone gli aspetti negativi.
Il capitale sociale è fattore particolarmente rilevante per lo sviluppo dei mercati finanziari: il rapporto di reciproca fiducia tra debitore e creditore è alla base della stabilità e della correttezza delle relazioni. La sua mancanza costituisce tra l’altro barriera all’entrata nel mercato di imprese di nuova creazione. Un avanzato grado di scolarità agevola l’accesso critico a informazioni utili per la valutazione della convenienza e del rischio di un contratto finanziario; ne derivano minori costi di apprendimento e di gestione di un investimento, un maggiore incentivo alla partecipazione ai mercati finanziari.
L’istruzione allenta i vincoli economici e culturali che legano gli individui al proprio ambiente di origine. Aumenta le probabilità che i più capaci e meritevoli accedano a funzioni di governo
nell’organizzazione dei fattori produttivi. Anche per questa via influisce positivamente sulla crescita economica: una buona istruzione incide sulla efficienza delle imprese, pone le
condizioni affinché il processo di selezione concorrenziale degli imprenditori più innovativi, più adatti a sospingere lo sviluppo economico, si dispieghi senza i freni esercitati da diritti di casta e da posizioni di rendita.Lo spettro di queste riflessioni sul nesso fra istruzione e sviluppo si può
estendere agli aspetti demografici. La diffusione di elevati livelli di istruzione si associa, a parità di altre circostanze, amigliori condizioni di salute e a un aumento della speranza di
vita, in quanto può indurrecomportamenti meno rischiosi e una maggiore capacità di elaborare
l’informazione utile alla prevenzione e all’accesso alle cure disponibili.
2. L’istruzione e il potenziale di crescita dell’economia italiana
Dalla metà dello scorso decennio la produttività del lavoro aumenta in Italia di un punto percentuale l’anno meno che nella media dei paesi dell’OCSE. Questo fenomeno è alla radice della crisi di crescita e di competitività che il Paese vive.
Il rapido aumento dell’occupazione degli ultimi anni, favorito dalla moderazione salariale, dalla legalizzazione di parte dell’immigrazione, dalle riforme del mercato del lavoro, ha portato a
un fisiologico e atteso rallentamento nella dinamica della produttività. Vi si è aggiunto però un deterioramento delle condizioni di efficienza complessiva del sistema economico. Lo sintetizza
la recente riduzione del livello di produttività totale dei fattori, caso unico tra i paesi industriali. Ciò appare ancor più inquietante alla luce degli scenari demografici per i prossimi decenni. Secondo le proiezioni disponibili, anche tenuto conto di cospicui flussi migratori, la
popolazione in età dalavoro è destinata a ridursi in maniera rilevante, frenando
ulteriormente la crescita potenziale dell’economia italiana. Solo un significativo aumento della partecipazione al mercato del lavoro e una ripresa della crescita della produttività potranno contrastare questi andamenti. Un aumento dell’istruzione media della popolazione e
della sua qualità è condizione necessaria per entrambi.
La partecipazione al mercato del lavoro in Italia, nonostante i significativi progressi degli ultimi dieci anni, è ancora molto inferiore alla media europea, in particolare per le donne, i giovani
e le classi di età più elevate. Una maggiore istruzione tende a ridurre questi divari. Nei paesi dell’OCSE il tasso di occupazione medio dei maschi di età compresa tra i 25 e i 64 anni con un grado di istruzione universitario è di 15 punti percentuali superiore a quello di coloro che possiedono solo un diploma di scuola secondaria inferiore; per le donne il divario sale a 30 punti.
La maggiore probabilità di essere occupate delle persone più istruite riflette la più alta propensionea partecipare al mercato del lavoro e, per gli adulti, il minor rischio di disoccupazione. Stime del Servizio Studi della Banca d’Italia indicano che, a parità di ogni altra
circostanza, nel nostro paesela probabilità di partecipare al mercato del lavoro aumenta di 2,4 punti percentuali per ogni anno di scuola frequentato. Nelle regioni meridionali questo valore sale a 3,2, indice di una maggiore scarsità relativa di lavoratori qualificati. Ciò mostra in tutta
evidenza lo speciale beneficio per ilsuperamento del dualismo territoriale che si otterrebbe da politiche che curino l’innalzamento del grado di istruzione al Sud.
Possedere un elevato livello di istruzione costituisce inoltre il migliore strumento per ridurre i rischi insiti in percorsi di carriera frammentari e quelli connessi con la perdita dell’occupazione, oggi più elevati che in passato a causa del crescente ricorso a rapporti di
lavoro a tempo determinato. All’aumentare della qualificazione professionale cresce infatti l’incentivo per l’impresa a investire in rapporti stabili e duraturi, diventa maggiore la possibilità
per il lavoratore di ritrovare pronta collocazione nel caso di rapporti di lavoro insoddisfacenti o di eventi sfavorevoli che coinvolgano il posto di lavoro.
Più elevati livelli di istruzione favoriscono guadagni di produttività. Una misura imperfetta di questa relazione è desumibile dal legame tra titolo di studio e reddito da lavoro, ovvero dai rendimenti privati dell’istruzione. Nella maggioranza dei paesi dell’OCSE, la remunerazione
delle persone con un titolo equivalente alla nostra laurea specialistica supera di almeno il 50 per cento quella dei lavoratori con diploma di scuola secondaria. I differenziali salariali tra lavoratori in possesso di diploma e quelli con la sola licenza media sono compresi tra il
15 e il 30 per cento. In Italia il rendimento privato dell’istruzione è inferiore alla media dei paesi dell’OCSE; ciònonostante, un dato ammontare di risorse finanziarie investite in
istruzione, anche tenendo conto dei costi sostenuti, rende molto di più di impieghi alternativi.
Un insufficiente livello di istruzione può ripercuotersi sull’andamento della produttività a causa della conseguente scarsa capacità di realizzare le opportunità legate al rapido progresso
tecnico. Solo di recente, e con ritardo nel nostro paese, l’organizzazione della produzione ha iniziato a trarre beneficio dall’uso intensivo delle tecnologie dell’informazione, sul quale incide in
misura essenziale l’innalzamento della qualità dell’offerta formativa. L’Italia, tra i paesi a più elevato livello di sviluppo, è finora caratterizzata per l’anomalia e la staticità del suo
modello di specializzazione, in cui spiccano proprio i comparti caratterizzati da medio-bassa intensità di capitale umano: è un modello coerente con una scarsa dotazione relativa di manodopera a elevata qualifica. Nel nuovo contesto tecnologico e competitivo tale modello
penalizza la nostra economia, ostacolandone l’inserimento nei comparti innovativi oggi più dinamici ed esponendola alla inasprita concorrenza dei paesi emergenti.
Fondamentale nel superare la staticità di questo modello è anche la diffusione di capacità manageriali che sappiano ridisegnare i processi produttivi, sfruttare le tecnologie, riallocare le risorse. La diffusione di tali capacità può discendere da un più elevato
grado di istruzione; si accompagna anche inevitabilmente con una maggiore contendibilità della
proprietà delle imprese.
3. Quale istruzione?
Nel secolo scorso la scuola e l’università italiane hanno sostenuto la crescita economica e civile del Paese; sono divenute meno elitarie, si sono progressivamente aperte alla società; educando milioni di cittadini che ne erano prima esclusi, hanno ridotto le disuguaglianze, ma hanno reso allo stesso tempo più difficile conseguire un elevato standard qualitativo. Nel corso dei decenni
gli interventi di riforma del sistema scolastico e universitario nazionale hanno solo in parte recepito le nuove istanze per una efficace transizione di una massa crescente di
studenti ai gradi più elevati di istruzione, oggi più che mai indispensabili alla luce dei mutamenti in atto nel mercato del lavoro dei paesi avanzati.Il deficit di istruzione resta preoccupante, per il ritardo con cui si è dato avvio in Italia alla scolarizzazione di massa e per le più sfavorevoli
dinamiche demografiche. Nonostante i significativi progressi conseguiti nell’innalzare il livello di istruzione dei più giovani, nel 2005 la quota di diplomati nella fascia di età tra i 25 e i 64 anni era solo del 37,5 per cento, un valore inferiore di quasi otto punti alla media dei
paesi dell’OCSE. Ancora più elevato era il differenziale nella quotadi laureati, che in Italia raggiungeva appena il 12 per cento, la metà della media dei paesi
dell’OCSE. Dato il più rapido invecchiamento demografico, l’incidenza dei giovani sul totale della popolazione è tra le più basse nel confronto internazionale. Ne discende che i progressi conseguiti dalle nuove generazioni hanno un limitato impatto sui livelli medi di istruzione della
popolazione.
Troppi adolescenti non frequentano tuttora la scuola e quelli che lo fanno mostrano maggiori difficoltà nell’apprendere rispetto ai loro coetanei europei: nel 2004 solo 76 ragazzi su 100 conseguivano il diploma, un valore tra i più bassi nel confronto con i paesi avanzati. Secondo le periodiche rilevazioni dell’OCSE gli studenti italiani alla fine della scuola dell’obbligo si collocano agli ultimi posti nell’apprendimento della matematica, avendo accumulato un ritardo pari a un anno; risultato forse non sorprendente, considerando la caduta del numero di studenti nei corsi
di laurea in matematica e fisica. Anche nelle altre discipline i risultati appaiono poco confortanti: nella capacità di comprensione di un testo, la quota di studenti con risultati insufficienti si colloca in Italia su livelli nettamente superiori alla media dei paesi europei. A risultati medi insoddisfacenti si aggiungono ampi divari territoriali a svantaggio degli studenti delle regioni meridionali e un’elevata variabilità tra istituti scolastici. La dispersione dei risultati dell’apprendimento dei quindicenni è tra le più elevate dei paesi
OCSE. Pur in presenza di una scuola pubblica, il grado di istruzione e
il reddito delle famiglie diprovenienza rimangono determinanti: se la qualità delle scuole è differenziata e non vi è trasparenza informativa solo genitori “istruiti” sapranno guidare i propri
figli verso le classi e i professori migliori.
I nostri problemi non dipendono da un ammontare inadeguato di risorse pubbliche destinate all’istruzione scolastica. La spesa per studente nella scuola dell’obbligo e in quella secondaria è anzi più elevata rispetto alla media dei paesi dell’OCSE, per effetto non già di maggiori
retribuzioni pro capite del personale docente, bensì di un più alto rapporto numerico tra docenti e studenti: in Italia ogni cento alunni vi sono 9,4 insegnanti nelle scuole secondarie e 9,2 nelle scuole elementari,a fronte di valori pari a 7,4 e 6,1 nei paesi dell’OCSE e a 8,5 e 6,8 nella
media dei paesi europei. Sull’alto rapporto insegnanti/alunni in Italia influiscono scelte di politica sociale, come l’ampio sostegno agli studenti diversamente abili e la fornitura di servizi educativi in loco anche a comunità di piccole dimensioni sparse sul territorio. Ma pur tenendo conto di questi
fattori, il divario con gli altri paesi rimane elevato, riflettendo tra l’altro la frammentazione degli insegnamenti, e non si traduce in una miglior qualità dei risultati scolastici. Pesano carenze
nell’organizzazione e nella motivazione del personale.
Gli effetti sulla crescita economica derivanti da un innalzamento dei livelli medi di istruzione possono essere più o meno intensi a seconda degli indirizzi formativi che si promuovono: sono più
efficaci quelli che accrescono la mobilità di impiego dei lavoratori e, soprattutto, la diffusione di nuove idee.
Negli Stati Uniti la maggiore diffusione di conoscenze di base ha bene accompagnato l’accelerazione del progresso tecnico, contribuendo ad ampliare il vantaggio di crescita nei confronti dell’Europa continentale.
Le scuole tecniche e gli istituti professionali, basati su percorsi specialistici, hanno tradizioni antiche, soprattutto in Germania, dove hanno sostenuto lo sviluppo economico e sociale dall’inizio
del secolo scorso. Sono nati in un’epoca in cui la definizione di professionalità era molto più circoscritta e stabile che non oggi, fondata com’era su modalità di lavoro e su conoscenze
relativamente durature nel tempo. Oggi è diffusa l’esigenza di modificare in parte non trascurabile
la vocazione di questo tipo di scuole, perché occorrono in misura maggiore conoscenze che siano adattabili a contesti tecnologici dai confini assai più labili e soggetti a continui mutamenti. Pur riconoscendo il ruolo importante che le scuole tecniche e professionali svolgono ancora
per il nostro sistema produttivo, la formazione scolastica può essere maggiormente indirizzata verso l’acquisizione di abilità generali, che siano anche di incoraggiamento a proseguire gli studi fino ai gradi più elevati.
Questo ci porta a discutere brevemente dell’università. Nella popolazione più giovane, compresa tra 25 e 34 anni, la quota che in Italia completa un corso di studi post-secondari, nonostante il
significativo recupero negli anni più recenti sulla spinta nel nuovo ordinamento del
2002, è ancora al di sotto della media dei principali paesi industriali. I tassi di abbandono
nell’università sono pari al 60 per cento, quasi il doppio rispetto alla media degli stessi paesi. L’incidenza dei laureati che conseguono un titolo di specializzazione post-laurea permane in Italia
molto bassa, collocando il nostro paese alla quart’ultima posizione fra i paesi dell’OCSE. Il recente incremento nel numero di laureati si è concentrato nei nuovi percorsi a breve durata. Nello scorso biennio, le nuove iscrizioni si sono indirizzate soprattutto verso le aree giuridiche e
politico-sociali.
Più in generale, la composizione per corso di studi degli studenti universitari italiani appare sbilanciata, nel confronto internazionale, verso le discipline umanistiche e sociali a scapito di quelle tecniche e scientifiche. Parte del fenomeno è da imputare al fatto che negli
altri paesi i diplomi universitari di durata ridotta sono, diversamente che in Italia, prevalentemente orientati verso lo studio delle materie tecniche. Ma un’altra parte della spiegazione sta nelle elevate rendite di cui godono alcune professioni, rendite
che distorcono le scelte delle famiglie, e nella insufficiente domanda di qualifiche tecnico-scientifiche alte da parte delle imprese.
Le risorse pubbliche destinate all’istruzione post-secondaria sono relativamente minori in Italia che in molti altri paesi avanzati. Questo è anche il contraltare delle maggiori risorse destinate all’istruzione primaria e secondaria. La scelta politica di fondo è stata quella di
privilegiare i primi ordini scolastici a scapito dell’investimento in conoscenze avanzate. Non è una scelta lungimirantein un mondo in cui l’innovazione è la chiave di volta dello sviluppo.
Le risorse pubbliche impiegate in Italia appaiono ancora minori nel confronto con quelle messe in gioco nei sistemi universitari di stampo anglosassone, che pure vedono la prevalenza di atenei privati. E’ però diversa la forma che assumono gli interventi: ad esempio, negli Stati
Uniti prevale il finanziamento diretto degli studenti meritevoli e delle loro famiglie, attraverso borse di studio e prestiti personali; in Italia, come nel resto dell’Europa continentale, è di gran lunga prevalente il finanziamento delle strutture universitarie.
4. Linee evolutive
Nessuno dovrebbe ormai aver dubbi in Italia sull’urgenza di rimettere in moto la crescita economica. Il vivace spunto di ripresa congiunturale a cui stiamo assistendo non è certo sufficiente ad avviare una rapida soluzione dei difetti strutturali del sistema
produttivo italiano.
Per le ragioni che ho provato fin qui ad elencare, l’istruzione è uno dei più importanti capitoli
di un’azione di riforma volta a modificare il contesto in cui è inserito quel sistema.
In un’economia moderna il settore pubblico organizza e regola il mercato, produce beni pubblici, corregge le esternalità. Nel caso dell’istruzione questi principi vanno applicati tenendo conto della specificità e della particolare complessità del comparto.
Una efficace politica dell’istruzione deve conciliare l’eccellenza con l’equa diffusione delle opportunità di istruirsi nella misura massima desiderata. Non vi è conflitto fra questi due obiettivi, purché il soggetto pubblico persegua l’obiettivo di livellare le opportunità
di partenza e compia scelte gestionali che permettano anche al mercato di selezionare l’eccellenza.
Sul successo scolastico incidono significativamente le condizioni della famiglia di provenienza. Il nostro paese appare da questo punto di vista socialmente quasi immobile. La stessa probabilità di
conseguire una laurea dipende dalla qualità dell’istruzione precedente, ma se questa è
a volte insufficiente, come oggi in Italia, pesa fortemente l’ambiente socio-economico della
famiglia. Troppo poco è cambiato sotto questo profilo da quando, quarant’anni fa, Don Milani sollevava, pur in altri contesti, la stessa questione, forte della sua esperienza con i ragazzi della
scuola di Barbiana. Garantire a tutti i giovani le medesime opportunità di successo
nell’apprendimento, purché si adoperino per meritarlo, è la chiave per innalzare insieme l’efficienza e l’equità nel campo dell’istruzione. Entrambi gli obiettivi possono essere perseguiti in vari modi fra loro complementari. Nella scuola può essere utile aumentare la concorrenza fra gli istituti, sia nell’ambito pubblicosia in quello privato, con modalità di finanziamento che da un
lato premino le scuole migliori e dall’altro trasferiscano risorse direttamente alle famiglie per ampliarne la possibilità di scelta.
L’informazione che guida le famiglie nelle scelte scolastiche appare insufficiente: oltre alla prospettiva di ottenere un diploma uguale per tutti, vanno loro offerti criteri uniformi di valutazione, che permettano scelte mirate. Va eliminato l’incentivo perverso, per famiglie e scuole, a colludere nell’abbassare gli standard qualitativi dell’insegnamento, specialmente se
il finanziamento rimane legato esclusivamente al numero di iscrizioni. I primi passi verso
lo sviluppo di un articolato sistema di valutazione già presenti nel nostro ordinamento meritano di essere ulteriormente sviluppati, anche per indirizzare più consapevolmente l’azione pubblica di governo e di riforma del sistema scolastico. Considerazioni non dissimili valgono per l’università, istituzione essenziale per una economia che voglia restare a pieno titolo nel novero di quelle avanzate. Negli anni recenti importanti interventi hanno interessato l’università italiana. Per la prima volta si è proceduto a una valutazione della qualità dell’attività di ricerca. Nonostante
tutte le difficoltà di misurazione, essa può essere utilizzata in tempi brevi per orientare i finanziamenti pubblici destinati ai singoli atenei. E’ importante che il lavoro svolto non si tramuti in un’occasione persa. La trasparenza e il pubblico accesso al processo di valutazione
contribuiscono a rafforzare il confronto tra le università, accrescendo la consapevolezza delle scelte degli studenti, soprattutto di quelli meno inseriti nei circuiti informativi più ricchi. E’ auspicabile che ciò costituisca il primo gradino di un’azione tesa a stimolare la
concorrenza tra università, accrescendo gli incentivi all’innalzamento degli standard di qualità nella ricerca e nella didattica, nella selezione dei docenti. Nella scuola, nell’università, una più esplicita, consapevole apertura al merito evita che siano mortificati i talenti migliori, se assistita da opportune misure di sostegno degli studenti meritevoli non abbienti.
Il riconoscimento del merito non è garanzia di equità, ma, senza, la società è sicuramente più iniqua, perché accentua la discriminazione generata dalle condizioni di partenza; allo stesso tempo,è anche più povera, perché spreca le sue risorse.
Sapremo ritrovare, ne sono convinto, l’unità d’intenti che sola può far progredire l’istruzione
del Paese, quell’unità su cui, a partire dal dopoguerra, è stato fondato il progresso del sistema educativo italiano.
Fonte: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2006/11_Novembre/13/derita.shtml
La scuola di Draghi
La sortita del Governatore, gli impegni dei ministri
di
Giuseppe de Rita
Misericordia, anche lui... Credo che questa sia stata la reazione di qualche smagato opinionista di fronte alla potenziale iscrizione anche di Mario Draghi alla lunga schiera di coloro che da anni ripetono la nobile solfa della decisiva centralità della formazione, dell'innovazione, della ricerca, del fattore umano, della società della conoscenza; senza mai uscire da un'intenzionalità così generica da avere come unico sbocco concreto la richiesta, non sempre corrisposta, di maggiori risorse finanziarie alla scuola, all'università, agli enti di ricerca. Eppure l'esortazione, ancorché inconcludente, resta la tendenza retorica di tanti politici, accademici, uomini delle istituzioni, esponenti delle rappresentanze imprenditoriali e sindacali, amministratori locali, presidenti di club e associazioni di vario tipo. Per fortuna, nella sua lectio all'università di Roma, Mario Draghi si è sottratto alla tentazione puramente esortativa; anzi la lettura in filigrana del suo testo dimostra una coperta ma determinata volontà di uscire dall'esortazione generica e di mettere a fuoco i trascorsi e l'innovativo sviluppo del nostro sistema formativo, andando coraggiosamente in controtendenza rispetto ai pesanti interessi e poteri oggi in gioco. Tre sono le opzioni di Draghi. La prima, esplicita, è quella di immettere nel sistema delle massicce dosi di competizione e concorrenza fra sedi e processi di formazione; la seconda, coperta, è che tali sedi e processi devono avere forte autonomia organizzativa e al limite strategica; la terza, semi- esplicita ma conseguente alle precedenti, è potenziare la responsabilità che (per garantire autonomia e competizione) l'azione pubblica deve esercitare sui contenuti e sulle procedure di misurazione e valutazione dell'efficienza nonché dell'efficacia delle varie sedi formative. Rileggiamoci queste tre opzioni. Sono di piana razionalità, com'è nello stile di Draghi, ma sono anche sottilmente «faziose» cioè volutamente in controtendenza.
Chi gestisce oggi la formazione in Italia non ama la logica della competizione (il sistema è pubblico, unitario e uniforme); non ama l'autonomia delle sedi formative, come dimostra il penoso trascinarsi da vent'anni delle istanze di autonomia scolastica e universitaria; non ama la cultura della misurazione e della valutazione, anzi la vede come una tecnocratica invasione nella dignità del formatore e nella libertà del ricercatore. Ma proprio per questa triplice opposizione è meritoria la provocazione di Draghi: i gestori del sistema (politici o sindacalisti che siano) potranno in futuro non tener conto delle sue tre opzioni e continuare a privilegiare la dimensione accentrata, uniforme, non competitiva e impiegatizia del sistema; ma avranno sempre meno la copertura loro garantita dalla ricorrente magniloquenza del retorico primato del fattore umano e dell'innovazione, della scuola e della ricerca. Ma c'è un altro aspetto che merita di essere sottolineato ancorché Draghi lo evochi con mano leggera: il recupero di una buona piattaforma di cultura generalista, forse il grande tema del futuro se si vuole capire quale istruzione si debba prioritariamente perseguire. Scrive Draghi: «La formazione può essere maggiormente indirizzata verso l'acquisizione di abilità generali che siano anche di incoraggiamento a perseguire gli studi fino a gradi più elevati» e (aggiungo io) a fornire ai singoli quell'elasticità mentale che oggi è necessaria in ogni professione e per tutta la vita di lavoro.
Anche qui la provocazione faziosa è ben leggibile, se si pensa alla ubriacatura di specializzazioni che ha colpito la scuola e più ancora l'università italiana (oltre 3 mila corsi di laurea nel primo triennio) e che ha fatto dimenticare che senza una buona cultura di base siamo preda del genericismo più fatuo e i giovani non riescono neppure a scegliere consapevolmente un qualsiasi percorso specializzato (ne sono doloroso esempio vivente i quasi 60 mila iscritti a Scienze delle Comunicazioni). Se in conclusione la sortita di Draghi non verrà derubricata a evento ufficialmondano, essa impone un ripensamento di fondo di tutta la nostra politica formativa. Mi domando se qualcuno avrà voglia di farlo, oltre e dopo i condizionamenti finanziari e sindacali che si intrecciano nell'attuale Finanziaria; forse non sarebbe male che, su impulso di Prodi, i ministri competenti si accordassero per redigere una «nota aggiuntiva» che impostasse un ormai indispensabile percorso di lungo periodo per lo sviluppo formativo. È infatti incivile che si resti ancora per molto a declamare il primato dell'innovazione culturale, senza però innovare gli strumenti a essa dedicati.