sabato 30 ottobre 2010

INCONTRO PUBBLICO Prof.SCAPARRO


Pubblichiamo alcuni documenti inviati dal Prof. Scaparro, in particolare la lectio magistralis del Governatore della Banca d'Italia Draghi, più volte citata nel nostro incontro.
Chi è interessato a proseguire sull'argomento SCUOLA lasci commenti, contributi e proposte sul nostro blog o all'indirizzo pdvalchiavenna@libero.it.

grazie

Michele Salvati Perché nella scuola avanzano i privati 13.10.2010

Che in Italia tiri un’aria di sconforto e rassegnazione, che sia diffuso un giudizio di declino economico e civile, che l’orgoglio nazionale — in media non molto elevato nel nostro Paese — sia da tempo in una fase di forte calo, è un’impressione che Ernesto Galli della Loggia ed io condividiamo.
Non so però se sia giusto stabilire un legame tra questa impressione e la crescente frequenza di ragazzi appartenenti a ceti sociali elevati in scuole medie straniere, in Italia o direttamente all’estero («Gli espatriati della scuola», Corriere del 9 ottobre). Per affermarlo mancano indagini sul fenomeno e mancano studi che lo connettano alla crescente percezione dei genitori — sono loro che scelgono le scuole — che il nostro sia un Paese in crisi, al disinteresse per l’arte, la storia, la letteratura italiane, alla convinzione che il futuro, per l’Italia, sia molto oscuro.
Da tempo Galli della Loggia esprime una preoccupazione che condivido per il declino del senso di identità nazionale: ma è il fenomeno dell’iscrizione a scuole straniere conseguenza di questo declino o è dovuto a cause più concrete e operanti anche in altri Paesi? Impressione per impressione, la mia è che sia la caduta di qualità della scuola pubblica la principale causa del fenomeno che Galli della Loggia lamenta e l’intervista ad Andrea Guerra, amministratore delegato di Luxottica, pubblicata domenica scorsa, la conferma: l’iscrizione a scuole straniere è soprattutto la manifestazione di una strategia di ricerca della qualità, di alternative alla scuola pubblica, da parte delle famiglie che se lo possono permettere. Una manifestazione analoga all’iscrizione in buone scuole private, italiane, non straniere. In un contesto di declino della qualità ben più grave del nostro, questo è il motivo che ha condotto, negli Stati Uniti, a una radicale separazione, a un vero e proprio apartheid, tra un sistema scolastico pubblico, di massa e degradato, e un sistema di scuole private (e di poche scuole pubbliche) di alta qualità. Il fenomeno è noto da tempo, ma ora il documentario di Davis Guggenheim, Waiting for «Superman», lo sta imponendo all’opinione pubblica americana.
Il mio timore è che, senza interventi correttivi seri, noi ci avvieremo nella stessa direzione: lo mostra il fatto che non solo le famiglie abbienti mandano i propri figli in scuole straniere, ma li mandano anche, come ho già ricordato, in buone scuole private italiane. Rispetto ai tempi in cui le scuole private raccoglievano i figli dei ricchi che non riuscivano a sostenere la severità dei buoni licei pubblici, la situazione sta cambiando rapidamente, un po’ perché la qualità di molte scuole private sta aumentando (la domanda stimola l’offerta), un po’ perché la qualità di quelle pubbliche sta declinando. Declina perché l’ingresso massiccio dei figli degli immigrati le ha trovate impreparate (le scuole private hanno il «vantaggio», si fa per dire, di averne molto pochi, un po’ per scelta, ma soprattutto per le rette che applicano). Declina perché il continuo succedersi di riforme confuse ha fatto venir meno un profilo formativo chiaro dei diversi tipi di scuola media superiore. Declina perché non si è riusciti a trovare rimedio a un problema organizzativo non facile, ma importantissimo, quello della rotazione di docenti precari a inizio d’anno. Declina perché non c’è stato controllo sulla qualità dell’insegnamento e sul rigore delle valutazioni degli studenti. Declina perché le remunerazioni dei docenti sono inadeguate ad attrarre personale qualificato e le risorse per le singole scuole sono scarse e soprattutto incerte. Declina perché non si riesce a insegnare l’inglese come avviene in altri Paesi, in modo che i ragazzi arrivino all’università con una conoscenza sufficiente di questa lingua, scritta e parlata.
Credo che siano questi i motivi per cui i genitori che se lo possono permettere mandano i loro figli a scuole private, italiane o straniere, che percepiscono come migliori, non di rado sbagliando: la mia impressione è dunque che non sia la crisi dall’identità nazionale la spiegazione principale del fenomeno, bensì la ricerca della qualità, in un contesto in cui genitori sono sempre più consapevoli che è soprattutto l’istruzione a influire sul successo dei figli. A differenza degli Stati Uniti, da noi il fenomeno è ancora agli inizi e arrestarlo prima che degeneri, prima che si crei un apartheid intollerabile, rientra ancora nelle nostre possibilità.

Il Corriere della Sera del 13 ottobre 2010

Chiara Saraceno COSI' SI UCCIDE LA SCUOLA PUBBLICA 24.9.2010

Una gestione politica della scuola miope e indifferente all´esperienza dei bambini.
Una prima elementare a tempo pieno di una città del Nord, in un quartiere popolare con una forte presenza di immigrati. Trenta bambini per lo più eccitati dall´essere entrati tra i “grandi”, ad imparare le cose “dei grandi”, dopo il lungo apprendistato della scuola dell´infanzia, ove hanno da tempo imparato diverse cose, che un tempo si imparavano solo alla scuola elementare: non solo ad utilizzare il disegno come forma di comunicazione, ma a scrivere il proprio nome, riconoscere i segni identificativi del proprio e altrui posto, muoversi negli spazi e utilizzarli appropriatamente. Una buona metà sa già leggere e scrivere, pur con diversi livelli di competenza. Altri, anche tra gli italiani, fanno invece fatica ad esprimersi. Tra i figli di immigrati, ci sono diversi livelli di competenza linguistica: qualcuno padroneggia l´italiano come i coetanei italiani, con cui spesso è stato alla scuola materna, altri sono appena arrivati e stanno incominciando a impararlo, insieme a tutte le altre novità che comporta l´essere stato trapiantato in un paese sconosciuto.
Di fronte a questi bambini così diversi, ma tutti con le loro attese, curiosità, disponibilità ad essere conquistati dal meraviglioso mondo dell´apprendimento e della conoscenza, una sola maestra. Dato che la compresenza è stata eliminata in nome di esigenze di bilancio, ma anche perché la ministra e i suoi consiglieri la considerano uno spreco inutile di personale a solo vantaggio dei sindacati, una sola maestra per volta deve tener vivo l´interesse di trenta bambini, attenta a non scoraggiare chi è più avanti e a non lasciare irrimediabilmente indietro chi fa più fatica.
E dato che la ministra pensa che il modo migliore di integrare i bambini di provenienza non italiana sia separarli, se invece questi si trovano in mezzo ai coetanei italiani, non è previsto nessun insegnante che li segua nell´apprendimento della lingua (una misura da tempo inventata in paesi con una storia migratoria più lunga).Certo, negli anni Cinquanta e Sessanta le classi elementari potevano arrivare fino a 40 allievi. Ma era anche il tempo in cui i bambini erano molti di più e in un contesto di risorse - insegnanti, edifici - scarse c´era una sorta di trade off tra l´intento di fare in modo che tutti andassero a scuola e l´attenzione per i diversi ritmi e capacità di ciascuno. I bambini arrivavano a scuola con attitudini e competenze certamente differenziate per classe sociale, ma in un mondo ancora limitato al perimetro della famiglia e della scuola. Non c´era la televisione, il computer, internet. La pubblicità non aveva ancora scoperto i bambini come consumatori. E l´autorità e la disciplina erano lo strumento principe per tenere in ordine la classe, senza troppe preoccupazioni per gli effetti delle disuguaglianze sociali. Infatti i bocciati (già in prima elementare) appartenevano tutti alle classi più svantaggiate.
Quel mondo non esiste più, e le maestre lo sanno bene. Sanno anche che proprio perché i bambini oggi sono esposti ad una varietà di stimoli ed esperienze cognitive ben prima di arrivare nella scuola elementare, hanno bisogno di un insegnamento più dinamico e che riconosca le loro competenze e quindi più attento al diverso ritmo e sviluppo di ciascuno. Tanto più che proprio questa maggiore ricchezza di stimoli rischia di allargare le disuguaglianze sociali: tra i bambini che per appartenenza familiare sono in grado di trarne tutti i benefici ed invece quelli che ne sono esclusi. Ma non si può fare con questi numeri.
Così le maestre si barcamenano, rallentano le fasi dell´apprendimento per non lasciare troppo indietro quelli che partono svantaggiati, senza tuttavia poterlo fare del tutto. Così che comunque qualcuno sarà lasciato ad arrancare mentre i più svegli, o i più avvantaggiati, si annoieranno e forse perderanno per la strada la fiducia che avevano riposto in questa avventura. Ed i genitori che possono permetterselo si chiederanno se non sia meglio iscrivere il figlio ad una scuola privata. È così che si uccide la scuola pubblica, ma soprattutto la curiosità, la voglia di apprendere di chi vi entra con fiducia e desiderio. Non è colpa né delle maestre (che anzi fanno del loro meglio), né degli immigrati, né tantomeno dei bambini e dei loro genitori, con le loro diversità e disuguaglianze. È colpa di una gestione politica della scuola miope e indifferente all´esperienza dei bambini.

Desmond G.MULTINAZIONALI ALL'ATTACCO DELLA SCUOLA PUBBLICA 1.3.2009

Parlano i documenti: sin dagli anni 80 in Europa agiva un comitato d’affari sovranazionale che spingeva l’Unione Europea e i governi a stravolgere dalle fondamenta l’idea stessa di istruzione pubblica, preparando la strada all’entrata delle imprese nella gestione della scuola. Si tratta di un percorso tortuoso che vale la pena seguire per capire che cosa ha agito sullo sfondo delle “riforme” della scuola volute dai governi italiani succedutisi negli ultimi 15 anni, di destra e di “sinistra”: fino alla riforma gelminiana delle scuole superiori, in corso di approvazione proprio in questi giorni.

«I compiti dei sistemi d’istruzione e di formazione, la loro organizzazione, il contenuto degli insegnamenti, perfino la pedagogia sono stati oggetto di dibattiti spesso appassionati. La maggior parte di tali dibattiti appare oggi superata. Le interconnessioni fra scuola e impresa si sono sviluppate. Ciò mostra che le barriere culturali o ideologiche che separavano l’istituzione educativa e l’impresa si sfaldano a vantaggio delle due istituzioni. […] L’impresa è ormai un’importante produttrice di conoscenze e di nuove competenze. […] La necessità di questa evoluzione è ormai riconosciuta: la migliore prova ne è data dalla fine dei grandi dibattiti dottrinali sulle finalità dell’istruzione».

Con queste parole già nel 1996 l’U.E., nel suo libro bianco Insegnare e apprendere, voleva stabilire un punto di non ritorno sulle politiche dell’istruzione e sul dibattito in corso, sancendo in via definitiva l’entrata a pieno titolo delle imprese nella gestione diretta della pubblica istruzione dei cittadini europei. Di lì a poco in Italia sarà un governo di centrosinistra che, tramite il grimaldello dell’autonomia scolastica, comincerà per primo a predisporre il lento percorso dell’entrata delle imprese nel mondo della scuola. L’autonomia delle scuole diventa legge in Italia sotto il dicastero (1996-2000) di Luigi Berlinguer, Ministro della Pubblica Istruzione sotto il governo Prodi, il primo non democristiano della storia della Repubblica. Su questa spinta continueranno a muoversi nella direzione della scuola-azienda le riforme o tentativi di riforma dei suoi successori Moratti, Fioroni e Gelmini.

Nell’Italia di oggi il processo non è affatto concluso: l’ultimo tentativo, quello del disegno di legge Aprea, dove le istituzioni scolastiche potevano costituirsi in fondazioni, con la possibilità di avere partner pubblici o privati, e in cui il Consiglio d’istituto diventava “Consiglio di amministrazione”, ha subìto uno stop non si sa quanto temporaneo, mentre Tremonti-Brunetta-Gelmini spingono per rimettere tutto in gioco… E non serve un grosso sforzo di immaginazione per capire come all’aumento dell’influenza di privati e imprese sui meccanismi dell’istruzione corrisponda un progressivo sgretolamento dell’idea stessa di istruzione pubblica: è un fenomeno tutt’ora in corso e dagli esiti indefinibili, legati tutti all’opposizione che gli interessati (studenti, genitori, insegnanti: utenti dunque e lavoratori della scuola) riusciranno in questo periodo cruciale a mettere in campo.

A metà degli anni 90 dunque il fenomeno era già entrato a pieno titolo nell’agenda dell’Unione europea. Erano gli anni dell’attuazione delle finanziarie di «lacrime e sangue» varate a partire dal governo Amato, e delle prime attuazioni dei “contratti atipici” in accordo con i sindacati confederali. Sul piano teorico, questo era nient’altro che il punto di arrivo di una riflessione che già aveva radici lontane. Già sembravano passati secoli dalle grandi lotte collettive degli anni 60 e 70, dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori (1970), dai Decreti delegati (1974) che stabilivano, pur con notevoli limiti, l’intervento democratico e la partecipazione di rappresentanze genitoriali e studentesche alla gestione della scuola. Poi il “buco” degli anni 80, il riflusso della partecipazione e il rifugio nell’individualismo: terreno adatto per chi negli anni 70 aveva subìto l’iniziativa popolare e di massa ed era alla ricerca di una rivincita storica.

Gli anni 80: proprio in questo periodo, e non a caso, si apre una nuova fase produttiva a livello mondiale, caratterizzata da una costante e velocissima innovazione delle tecnologie e dei prodotti. È il momento in cui la produzione mondiale raggiunge livelli quantitativi e qualitativi mai visti prima, in un processo che dura ed è in piena progressione ancora oggi. Ed è il momento in cui i grandi imperi finanziari e produttivi cominciano a rivolgere direttamente la propria attenzione al mondo dell’istruzione e della scuola. Dalla scuola, secondo il punto di vista dei nuovi imprenditori rampanti, usciranno i lavoratori destinati, in vari gradi, alle industrie e alle imprese che, in maniera mai vista prima, cominciavano a diffondersi capillarmente nei territori, richiedendo innanzitutto manodopera flessibile e sottoposta a livelli di produttività tanto vasti quanto multiformi e cangianti: una manodopera precaria, dunque, priva di diritti e piegata alle esigenze primarie della produzione.

La scuola è, secondo il punto di vista dei nuovi industriali di quegli anni, il primo momento di formazione di un homo novus, plasmato sull’esigenza delle multinazionali. Si tratta, d’altra parte, di mettere a profitto l’enorme mercato dell’istruzione, la cui spesa ammonta, già da quegli anni, a più del doppio del mercato mondiale dell’automobile. In Europa i grandi industriali decidono di elaborare in concerto un piano comune di intervento sui meccanismi dell’educazione e dell’istruzione nel momento in cui si presenta, ormai irrimandabile, la necessità che la futura forza-lavoro si prepari a un continuo riadattamento delle proprie competenze di fronte alle nuove richieste della competitività, della velocità delle innovazioni, delle continue riconversioni aziendali e industriali. È il tentativo di adattare la funzione sociale della scuola al ritmo dei rapidi cambiamenti e delle trasformazioni economiche che proprio in questo periodo cominciano ad assumere proporzioni mai viste.

Nel 1983 viene dunque creato l’ERT, European Round Table of Industrialists, una struttura che raccoglie una quarantina tra i dirigenti delle maggiori imprese e multinazionali europee; partecipano alla fondazione gli italiani Carlo Debenedetti (Olivetti) e Umberto Agnelli (Fiat), insieme ad altri leaders delle peggiori multinazionali mondiali (Nestlé, Thyssen, Ciba-Geigy…). Si tratta in concreto di una potentissima lobby economica che influenza direttamente il Parlamento europeo, perseguendo gli obiettivi di innalzare la competitività europea al livello degli Stati Uniti e del Giappone, modernizzando l’industria di base e intervenendo direttamente in settori cruciali: privatizzazione di vitali servizi pubblici, riforma dei sistemi pensionistici, deregolamentazione del mercato del lavoro, distruzione dei sistemi della pubblica istruzione. L’ERT è la lobby che si muove sullo sfondo dell’Europa di Maastricht.

Un’attenzione speciale viene dedicata dall’ERT alla promozione di campagne per «l’alta qualità dell’educazione e della formazione», tanto che dal 1987 al 1999 è attivo al suo interno uno speciale Gruppo di lavoro sull’educazione: presieduto da manager di varie multinazionali (Nokia, Petrofina… ), il gruppo elabora una serie di reports che esprimono senza margini di dubbio le richieste degli industriali al mondo della scuola e dell’istruzione. La lettura di questi rapporti è importante per capire fino a che punto le riforme della scuola susseguitesi in Italia a partire dalla seconda metà degli anni ’90 siano state influenzate dalle direttive delle imprese.

In Educazione e competenza in Europa (1989) si afferma: «L’amministrazione della scuola [è] dominata dalle esigenze burocratiche. Le pratiche amministrative sono troppo rigide per permettere ai centri d’insegnamento di adattarsi ai cambiamenti richiesti dal rapido sviluppo delle moderne tecnologie e delle ristrutturazioni industriali e terziarie», per cui occorre «un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi.» Nel rapporto L’istruzione per gli europei. Verso la società della conoscenza (1995), si afferma ancora che «la responsabilità della formazione deve, in definitiva, essere assunta dall’industria. Sembra che nel mondo della scuola non si percepisca chiaramente quale sia il profilo dei collaboratori di cui l’industria ha bisogno. L’istruzione deve essere considerata come un servizio reso al mondo economico. I governi nazionali dovrebbero vedere l’istruzione come un processo esteso dalla culla fino alla tomba. Istruzione significa apprendere, non ricevere un insegnamento».

Investire in conoscenza. L’integrazione della tecnologia nella scuola europea (1997) è ancora più chiaro: «Non abbiamo tempo da perdere. [...] Ci appelliamo ai governi perché diano all’educazione un’alta priorità, perché invitino l’industria al tavolo di discussione sulle materie educative, e perché rivoluzionino i metodi d’insegnamento con la tecnologia». I rapporti dell’ERT non passano inosservati, e arrivano a influenzare direttamente le direttive della Comunità europea, che prima dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (1992) non si era mai interessata dell’istruzione. L’articolo 126 del Trattato di Maastricht accorda per la prima volta alla Commissione europea competenze in materia di insegnamento. A tal fine viene creata la Direzione generale dell’Educazione, della Formazione e della Gioventù, diretta dalla socialista francese Edith Cresson: si tratta di una sorta di ministero europeo dell’educazione. Attraverso questo tramite si attua una sorta di dialogo a distanza, spesso filtrato dagli interventi in prima persona delle varie Confindustrie, tra l’ERT e i governi europei, sia di destra che di sinistra, che a partire dalla seconda metà degli anni ’90 danno il via a una serie di riforme della scuola.

Il rapporto dell’ERT del 1989 citato sopra, del resto, aveva già affermato che «per creare l’impeto che permetta di ottenere i cambiamenti necessari […] crediamo che dovrebbero costituirsi associazioni tra le scuole e le imprese locali ed anche con organizzazioni sociali e culturali». Una risposta diretta arriva dall’Unione Europea che in un suo rapporto del 2005 afferma che bisogna «costruire partenariati a livello nazionale, regionale, locale e settoriale con le principali parti in causa, tra cui i datori di lavoro e le organizzazioni sindacali […]. Ciò consentirà agli istituti di stimolare il senso imprenditoriale e di iniziativa di cui gli studenti e le persone in formazione hanno bisogno. […] Tale ravvicinamento accresce le opportunità di accesso all’occupazione e di adattamento alle trasformazioni dell’attività lavorativa». Il mondo della produzione, le imprese, vogliono entrare nella gestione della scuola in modo da dirigere i processi della formazione e dell’istruzione. Punti chiave degli interventi: l’autonomia, la formazione continua o long-life learning, la riflessione sulle competenze.

Lo strumento strategico per fare entrare le imprese all’interno delle scuole è quello dell’autonomia scolastica. La Confindustria europea nel rapporto Per una scuola di qualità. Il punto di vista degli imprenditori (2000) affermava che «i governi devono attribuire alle scuole l'autonomia organizzativa, didattica e gestionale. Le scuole […] dovrebbero poter scegliere il personale insegnante e instaurare stretti rapporti con genitori, comunità locale, altre scuole e mondo del lavoro». E se la proposta di legge Aprea, citata sopra, spinta dall’attuale dicastero Gelmini, rappresenta la punta avanzata di questa tendenza, non sono certo da meno le proposte “alternative” elaborate dall’attuale “opposizione” parlamentare. Il testo che segue è citato dalla Proposta di legge del Partito democratico n. 1262, presentata il 5 giugno 2008, proprio in “alternativa” alla proposta Aprea: «Il consiglio dell’istituzione scolastica […] si profila come un organismo fortemente rappresentativo dell’intera comunità scolastica, della sua identità e della sua attività; conseguenza logica ne è l’apertura al territorio e l’eventuale accoglienza nel suo seno di membri esterni alla comunità scolastica. La scelta è rinviata allo statuto che può prevedere la possibilità di partecipazioni esterne (rappresentanze delle autonomie locali, delle università, delle associazioni, delle fondazioni e delle organizzazioni rappresentative del mondo economico, del terzo settore, del lavoro e delle realtà sociali e culturali presenti sul territorio), che possono integrare la composizione del consiglio e alle quali può essere attribuito voto consultivo o deliberativo».

L’esigenza di adattare l’istruzione ai livelli di flessibilità lavorativa e cognitiva richiesti dai nuovi livelli di produzione e dal mercato trova accoglienza nel concetto di formazione continua – apprendimento permanente. Il sopracitato report dell’ERT del 1989 sosteneva la necessità di «un processo di apprendimento continuo – formazione permanente che deve iniziare insegnando ai bambini a “imparare come si impara”.» Un rapporto dell’Unione Europea accoglieva nel 2001 la richiesta, in questi termini: «Nell'attività lavorativa, la complessità dell’organizzazione del lavoro, l’aumento dei compiti che i dipendenti devono svolgere, l’introduzione di schemi di lavoro flessibili e di metodi di lavoro a squadre significano che la gamma delle competenze utilizzate sul posto di lavoro viene ampliata costantemente.» Il long-life learning si presenta dunque come una richiesta aggiuntiva di competenze flessibili a uso e consumo della nuova impresa, i cui oneri sono scaricati tutti sulle spalle del lavoratore, che dovrà garantire a sue spese una preparazione all’altezza delle esigenze della produzione. Forse gli argomenti usati dall’ERT e dall’Unione Europea dovevano essere assai convincenti, se tra i firmatari di una proposta di iniziativa popolare per il diritto all’apprendimento permanente troviamo anche la CGIL…

Su un piano più sottile si pone l’importanza centrale data dai manager d’impresa della nuova Europa alla categoria della competenza a discapito di quella della conoscenza. È la richiesta di una scuola incentrata sul fare invece che sul sapere, che presuppone un homo novus abile, efficiente e naturalmente flessibile. Che conta, in questo contesto, l’approfondimento, la conoscenza, il pensiero? L’intera categoria della conoscenza è liquidata a «nozionismo», le imprese del futuro non hanno tempo da perdere con quisquilie di questo tipo, che abituano le persone a ragionare di testa propria, fino, in teoria, a fornirgli argomenti per opporsi ai piani del padronato. «Noi crediamo che il prodotto della catena educativa deve essere un individuo a tutto tondo che abbia una conoscenza e delle competenze base più ampie che approfondite, allenato a imparare a imparare e motivato a imparare sempre di più» (ERT, 1995). «[Esiste] la necessità di spostare la priorità dalla ‘conoscenza’ alla ‘competenza’ e dall’insegnamento all’apprendimento» (Commissione Europea, 2001). «Numerosi mutamenti sociali, culturali, economici e tecnologici nell'ambito della società comportano per gli insegnanti la necessità di rispondere a nuove esigenze e rendono urgente la necessità di sviluppare approcci all'insegnamento maggiormente incentrati sulle competenze, ponendo ancor più l'accento sui risultati dell'apprendimento»

(UE, Sul miglioramento della qualità della formazione degli insegnanti, 2007). «Per accrescere la qualità dell’apprendimento si propone: a) la riduzione del numero delle discipline nella scuola secondaria superiore, l’accrescimento dell’orario annuale delle discipline scientifiche e tecnologiche e l’applicazione generalizzata della pratica sperimentale per rafforzare le competenze essenziali e ridurre il nozionismo» (Confindustria, Piano d’azione per la scuola, 2007).
Non stupisca dunque, a questo punto, la tracotanza con cui vengono fatti passare messaggi di questo tipo. Ma un brivido di indignazione mista a frustrazione deve aver percorso le schiene di diversi insegnanti di scuola media, precari e non, quando, innocentemente mischiato alle altre prove cosiddette INVALSI elaborate dal gelminiano Ministero dell'Istruzione, hanno trovato tra i vari test da sottoporre all’analisi degli studenti in prova di esame di stato di terza media 2008-2009 uno scritto che, in conclusione, riproponiamo: «Nella società globale del 2000 bisogna perdere l’ossessione del posto fisso ad ogni costo ed acquisire il “virus” dell’internazionalità ed il gusto della mobilità professionale. L’interesse del lavoro, l’apprendimento di cose nuove, la responsabilità e l’iniziativa, sono elementi da valorizzare e non da relegare in secondo piano. Se una persona, soprattutto giovane, ritiene di aver imparato tutto quello che c’era da imparare in un determinato posto è meglio che cerchi altri posti dove poter continuare il suo processo di apprendimento continuo; che poi resta la vera garanzia contro la minaccia di disoccupazione tecnologica.»

Si trattava evidentemente di un malcelato tentativo di far passare come del tutto naturale, addirittura conveniente, per il giovane studente in uscita dalle scuole medie, il passaggio a un nuovo contesto studentesco e/o lavorativo di flessibilità e di precarietà. Il brano era tratto dal best-seller Oltre il 2000, pubblicato nel 1993 da Nicola Cacace, considerato un grande esperto di previsioni strategiche dei futuri scenari dell'economia e del lavoro, e per questo consigliere economico di diversi ministri della Repubblica. Svalutazione dell’idea di «posto fisso», «mobilità professionale», «apprendimento continuo», «disoccupazione tecnologica»: lo scritto di Cacace è capace di sintetizzare in poche parole tutta la storia dell’attuale involuzione scolastica e lavorativa. Va dato atto che comunque le previsioni di Cacace, a quasi 20 anni dalla loro elaborazione, si sono dimostrate azzeccatissime: lo sgretolamento dei diritti acquisiti in anni di lotte dei lavoratori con l’immissione forzata nel mondo del lavoro di una flessibilità che nel nostro paese è sinonimo solamente di precarietà selvaggia e diffusa, di pari passo con la lenta entrata delle imprese nella scuola e lo stravolgimento dell’idea di “pubblica istruzione” che le riforme che si sono susseguite dagli anni ’90 ad oggi hanno attuato o cercato di attuare, testimoniano il successo oltre le aspettative di siffatte tesi.

A cura di Desmond G.

L’articolo si basa su materiali forniti durante il convegno Cesp – Centro studi per la scuola pubblica, tenutosi a Pisa il 10/12/2009.

Lectio Magistralis prof. Mario Draghi, Governatore della Banca d’Italia, inaugurazione del 100° anno accademico Roma, 9 nov 2006

1. Istruzione e sviluppo

Nel secondo dopoguerra l’Italia si avviò su un sentiero di sviluppo sostenuto e lo percorse per più di un quarto di secolo. Venne recuperata una parte cospicua del ritardo nei confronti dei paesi con più elevati livelli di benessere economico. Lo sviluppo, pur connotato da
tensioni sociali e conflitti distributivi, a tratti acuti, beneficiò di diversi fattori, interni ed esterni, che consentirono di conseguire fortissimi guadagni di produttività. Vennero impiegate crescenti risorse nei settori a più elevato prodotto per addetto, prima largamente sottoutilizzate nel comparto primario, completandola transizione verso un’economia industriale. La crescita dell’economia, di durata e intensità senza precedenti nel nostro paese, fu accompagnata
da un innalzamento progressivo del livello di istruzione della popolazione, che seppe combinarsi efficacemente con lo stato delle conoscenze tecnologiche.

Dagli anni novanta l’irruzione delle economie emergenti sui mercati internazionali, l’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le biotecnologie, le tecnologie dei materiali sottili mutano radicalmente le caratteristiche dello sviluppo economico a livello globale. Hanno disegnato nuove gerarchie, rivoluzionato i processi produttivi, modificato in modo sostanziale, soprattutto nei paesi avanzati, le caratteristiche dell’input di lavoro domandato dalle imprese. Ha preso nuova forza quell’ampio filone della letteratura economica che da tempo è volto a riflettere sul nesso fra istruzione e sviluppo.

A grandi linee, il livello di istruzione riveste un peso determinante nello spiegare i processi di crescita economica sotto due fondamentali profili

Il primo attiene al miglioramento delle conoscenze applicate alla produzione: l’accumulazione di capitale umano alimenta l’efficienza produttiva, sospinge la remunerazione del lavoro e degli altri fattori produttivi. Questo motore della crescita diviene ancora più rilevante nelle fasi caratterizzate da rapido progresso tecnico. Edmund Phelps notava fin dagli anni sessanta come l’acquisizione di un livello avanzato di conoscenze sia condizione essenziale per innovare e per adattarsi
alle nuove tecnologie. La dotazione di capitale umano assume un valore cruciale che trascende chi ne usufruisce in prima istanza: essa promuove la generazione e la diffusione di nuove idee che danno impulso al progresso tecnico; migliora le prospettive di remunerazione e, chiudendo il circolo virtuoso, accresce l’incentivo all’ulteriore investimento in capitale umano.

Il sistema di istruzione quale fonte primaria di accumulazione di questo tipo di capitale produce esternalità rilevanti, che contribuiscono a innalzare le prospettive di crescita dell’intera
economia. È, questa, una delle intuizioni più interessanti delle “nuove” teorie della crescita endogena. Secondo alcune stime, il rendimento sociale dell’istruzione è superiore al rendimento privato, cioè ai più elevati benefici di cui gode chi possiede una maggiore e migliore istruzione.
Ma le esternalità, e veniamo al secondo profilo, non si limitano all’ambito strettamente produttivo: incidono sullo stesso contesto sociale, contribuendo anche per questa via alla crescita economica. Questo aspetto è stato analizzato soprattutto in relazione ai paesi in via di sviluppo, ma concerne naturalmente anche le società avanzate. Da tempo il pensiero economico, e non solo, sottolinea come le proprietà di efficienza dei mercati in una economia non possano prescindere dal
“capitale sociale”, definito come l’insieme delle istituzioni, delle norme sociali di fiducia e reciprocità nelle reti di relazioni formali e informali, che favoriscono l’azione collettiva e
costituiscono una risorsa per la creazione di benessere. A livello aggregato il capitale sociale, distinto dal capitale umano a cui pure è collegato, è un fattore di sviluppo umano, sociale,
economico. Esso è il sistema di valori condiviso, che garantisce il senso di responsabilità verso gli impegni assunti dalle parti nella formazione di un contratto. Questi valori rappresentano un tratto dell’identità di un paese, che si fissa nel lungo periodo, per via di consuetudini e
principi che si tramandano di generazione in generazione. Il sistema di istruzione può arricchire questa eredità, accrescendone le opportunità, attenuandone gli aspetti negativi.
Il capitale sociale è fattore particolarmente rilevante per lo sviluppo dei mercati finanziari: il rapporto di reciproca fiducia tra debitore e creditore è alla base della stabilità e della correttezza delle relazioni. La sua mancanza costituisce tra l’altro barriera all’entrata nel mercato di imprese di nuova creazione. Un avanzato grado di scolarità agevola l’accesso critico a informazioni utili per la valutazione della convenienza e del rischio di un contratto finanziario; ne derivano minori costi di apprendimento e di gestione di un investimento, un maggiore incentivo alla partecipazione ai mercati finanziari.

L’istruzione allenta i vincoli economici e culturali che legano gli individui al proprio ambiente di origine. Aumenta le probabilità che i più capaci e meritevoli accedano a funzioni di governo
nell’organizzazione dei fattori produttivi. Anche per questa via influisce positivamente sulla crescita economica: una buona istruzione incide sulla efficienza delle imprese, pone le
condizioni affinché il processo di selezione concorrenziale degli imprenditori più innovativi, più adatti a sospingere lo sviluppo economico, si dispieghi senza i freni esercitati da diritti di casta e da posizioni di rendita.Lo spettro di queste riflessioni sul nesso fra istruzione e sviluppo si può
estendere agli aspetti demografici. La diffusione di elevati livelli di istruzione si associa, a parità di altre circostanze, amigliori condizioni di salute e a un aumento della speranza di
vita, in quanto può indurrecomportamenti meno rischiosi e una maggiore capacità di elaborare
l’informazione utile alla prevenzione e all’accesso alle cure disponibili.

2. L’istruzione e il potenziale di crescita dell’economia italiana
Dalla metà dello scorso decennio la produttività del lavoro aumenta in Italia di un punto percentuale l’anno meno che nella media dei paesi dell’OCSE. Questo fenomeno è alla radice della crisi di crescita e di competitività che il Paese vive.
Il rapido aumento dell’occupazione degli ultimi anni, favorito dalla moderazione salariale, dalla legalizzazione di parte dell’immigrazione, dalle riforme del mercato del lavoro, ha portato a
un fisiologico e atteso rallentamento nella dinamica della produttività. Vi si è aggiunto però un deterioramento delle condizioni di efficienza complessiva del sistema economico. Lo sintetizza
la recente riduzione del livello di produttività totale dei fattori, caso unico tra i paesi industriali. Ciò appare ancor più inquietante alla luce degli scenari demografici per i prossimi decenni. Secondo le proiezioni disponibili, anche tenuto conto di cospicui flussi migratori, la
popolazione in età dalavoro è destinata a ridursi in maniera rilevante, frenando
ulteriormente la crescita potenziale dell’economia italiana. Solo un significativo aumento della partecipazione al mercato del lavoro e una ripresa della crescita della produttività potranno contrastare questi andamenti. Un aumento dell’istruzione media della popolazione e
della sua qualità è condizione necessaria per entrambi.

La partecipazione al mercato del lavoro in Italia, nonostante i significativi progressi degli ultimi dieci anni, è ancora molto inferiore alla media europea, in particolare per le donne, i giovani
e le classi di età più elevate. Una maggiore istruzione tende a ridurre questi divari. Nei paesi dell’OCSE il tasso di occupazione medio dei maschi di età compresa tra i 25 e i 64 anni con un grado di istruzione universitario è di 15 punti percentuali superiore a quello di coloro che possiedono solo un diploma di scuola secondaria inferiore; per le donne il divario sale a 30 punti.
La maggiore probabilità di essere occupate delle persone più istruite riflette la più alta propensionea partecipare al mercato del lavoro e, per gli adulti, il minor rischio di disoccupazione. Stime del Servizio Studi della Banca d’Italia indicano che, a parità di ogni altra
circostanza, nel nostro paesela probabilità di partecipare al mercato del lavoro aumenta di 2,4 punti percentuali per ogni anno di scuola frequentato. Nelle regioni meridionali questo valore sale a 3,2, indice di una maggiore scarsità relativa di lavoratori qualificati. Ciò mostra in tutta
evidenza lo speciale beneficio per ilsuperamento del dualismo territoriale che si otterrebbe da politiche che curino l’innalzamento del grado di istruzione al Sud.

Possedere un elevato livello di istruzione costituisce inoltre il migliore strumento per ridurre i rischi insiti in percorsi di carriera frammentari e quelli connessi con la perdita dell’occupazione, oggi più elevati che in passato a causa del crescente ricorso a rapporti di
lavoro a tempo determinato. All’aumentare della qualificazione professionale cresce infatti l’incentivo per l’impresa a investire in rapporti stabili e duraturi, diventa maggiore la possibilità
per il lavoratore di ritrovare pronta collocazione nel caso di rapporti di lavoro insoddisfacenti o di eventi sfavorevoli che coinvolgano il posto di lavoro.

Più elevati livelli di istruzione favoriscono guadagni di produttività. Una misura imperfetta di questa relazione è desumibile dal legame tra titolo di studio e reddito da lavoro, ovvero dai rendimenti privati dell’istruzione. Nella maggioranza dei paesi dell’OCSE, la remunerazione
delle persone con un titolo equivalente alla nostra laurea specialistica supera di almeno il 50 per cento quella dei lavoratori con diploma di scuola secondaria. I differenziali salariali tra lavoratori in possesso di diploma e quelli con la sola licenza media sono compresi tra il
15 e il 30 per cento. In Italia il rendimento privato dell’istruzione è inferiore alla media dei paesi dell’OCSE; ciònonostante, un dato ammontare di risorse finanziarie investite in
istruzione, anche tenendo conto dei costi sostenuti, rende molto di più di impieghi alternativi.
Un insufficiente livello di istruzione può ripercuotersi sull’andamento della produttività a causa della conseguente scarsa capacità di realizzare le opportunità legate al rapido progresso
tecnico. Solo di recente, e con ritardo nel nostro paese, l’organizzazione della produzione ha iniziato a trarre beneficio dall’uso intensivo delle tecnologie dell’informazione, sul quale incide in
misura essenziale l’innalzamento della qualità dell’offerta formativa. L’Italia, tra i paesi a più elevato livello di sviluppo, è finora caratterizzata per l’anomalia e la staticità del suo
modello di specializzazione, in cui spiccano proprio i comparti caratterizzati da medio-bassa intensità di capitale umano: è un modello coerente con una scarsa dotazione relativa di manodopera a elevata qualifica. Nel nuovo contesto tecnologico e competitivo tale modello
penalizza la nostra economia, ostacolandone l’inserimento nei comparti innovativi oggi più dinamici ed esponendola alla inasprita concorrenza dei paesi emergenti.

Fondamentale nel superare la staticità di questo modello è anche la diffusione di capacità manageriali che sappiano ridisegnare i processi produttivi, sfruttare le tecnologie, riallocare le risorse. La diffusione di tali capacità può discendere da un più elevato
grado di istruzione; si accompagna anche inevitabilmente con una maggiore contendibilità della
proprietà delle imprese.

3. Quale istruzione?
Nel secolo scorso la scuola e l’università italiane hanno sostenuto la crescita economica e civile del Paese; sono divenute meno elitarie, si sono progressivamente aperte alla società; educando milioni di cittadini che ne erano prima esclusi, hanno ridotto le disuguaglianze, ma hanno reso allo stesso tempo più difficile conseguire un elevato standard qualitativo. Nel corso dei decenni
gli interventi di riforma del sistema scolastico e universitario nazionale hanno solo in parte recepito le nuove istanze per una efficace transizione di una massa crescente di
studenti ai gradi più elevati di istruzione, oggi più che mai indispensabili alla luce dei mutamenti in atto nel mercato del lavoro dei paesi avanzati.Il deficit di istruzione resta preoccupante, per il ritardo con cui si è dato avvio in Italia alla scolarizzazione di massa e per le più sfavorevoli
dinamiche demografiche. Nonostante i significativi progressi conseguiti nell’innalzare il livello di istruzione dei più giovani, nel 2005 la quota di diplomati nella fascia di età tra i 25 e i 64 anni era solo del 37,5 per cento, un valore inferiore di quasi otto punti alla media dei
paesi dell’OCSE. Ancora più elevato era il differenziale nella quotadi laureati, che in Italia raggiungeva appena il 12 per cento, la metà della media dei paesi
dell’OCSE. Dato il più rapido invecchiamento demografico, l’incidenza dei giovani sul totale della popolazione è tra le più basse nel confronto internazionale. Ne discende che i progressi conseguiti dalle nuove generazioni hanno un limitato impatto sui livelli medi di istruzione della
popolazione.

Troppi adolescenti non frequentano tuttora la scuola e quelli che lo fanno mostrano maggiori difficoltà nell’apprendere rispetto ai loro coetanei europei: nel 2004 solo 76 ragazzi su 100 conseguivano il diploma, un valore tra i più bassi nel confronto con i paesi avanzati. Secondo le periodiche rilevazioni dell’OCSE gli studenti italiani alla fine della scuola dell’obbligo si collocano agli ultimi posti nell’apprendimento della matematica, avendo accumulato un ritardo pari a un anno; risultato forse non sorprendente, considerando la caduta del numero di studenti nei corsi
di laurea in matematica e fisica. Anche nelle altre discipline i risultati appaiono poco confortanti: nella capacità di comprensione di un testo, la quota di studenti con risultati insufficienti si colloca in Italia su livelli nettamente superiori alla media dei paesi europei. A risultati medi insoddisfacenti si aggiungono ampi divari territoriali a svantaggio degli studenti delle regioni meridionali e un’elevata variabilità tra istituti scolastici. La dispersione dei risultati dell’apprendimento dei quindicenni è tra le più elevate dei paesi
OCSE. Pur in presenza di una scuola pubblica, il grado di istruzione e
il reddito delle famiglie diprovenienza rimangono determinanti: se la qualità delle scuole è differenziata e non vi è trasparenza informativa solo genitori “istruiti” sapranno guidare i propri
figli verso le classi e i professori migliori.

I nostri problemi non dipendono da un ammontare inadeguato di risorse pubbliche destinate all’istruzione scolastica. La spesa per studente nella scuola dell’obbligo e in quella secondaria è anzi più elevata rispetto alla media dei paesi dell’OCSE, per effetto non già di maggiori
retribuzioni pro capite del personale docente, bensì di un più alto rapporto numerico tra docenti e studenti: in Italia ogni cento alunni vi sono 9,4 insegnanti nelle scuole secondarie e 9,2 nelle scuole elementari,a fronte di valori pari a 7,4 e 6,1 nei paesi dell’OCSE e a 8,5 e 6,8 nella
media dei paesi europei. Sull’alto rapporto insegnanti/alunni in Italia influiscono scelte di politica sociale, come l’ampio sostegno agli studenti diversamente abili e la fornitura di servizi educativi in loco anche a comunità di piccole dimensioni sparse sul territorio. Ma pur tenendo conto di questi
fattori, il divario con gli altri paesi rimane elevato, riflettendo tra l’altro la frammentazione degli insegnamenti, e non si traduce in una miglior qualità dei risultati scolastici. Pesano carenze
nell’organizzazione e nella motivazione del personale.

Gli effetti sulla crescita economica derivanti da un innalzamento dei livelli medi di istruzione possono essere più o meno intensi a seconda degli indirizzi formativi che si promuovono: sono più
efficaci quelli che accrescono la mobilità di impiego dei lavoratori e, soprattutto, la diffusione di nuove idee.

Negli Stati Uniti la maggiore diffusione di conoscenze di base ha bene accompagnato l’accelerazione del progresso tecnico, contribuendo ad ampliare il vantaggio di crescita nei confronti dell’Europa continentale.

Le scuole tecniche e gli istituti professionali, basati su percorsi specialistici, hanno tradizioni antiche, soprattutto in Germania, dove hanno sostenuto lo sviluppo economico e sociale dall’inizio
del secolo scorso. Sono nati in un’epoca in cui la definizione di professionalità era molto più circoscritta e stabile che non oggi, fondata com’era su modalità di lavoro e su conoscenze
relativamente durature nel tempo. Oggi è diffusa l’esigenza di modificare in parte non trascurabile
la vocazione di questo tipo di scuole, perché occorrono in misura maggiore conoscenze che siano adattabili a contesti tecnologici dai confini assai più labili e soggetti a continui mutamenti. Pur riconoscendo il ruolo importante che le scuole tecniche e professionali svolgono ancora
per il nostro sistema produttivo, la formazione scolastica può essere maggiormente indirizzata verso l’acquisizione di abilità generali, che siano anche di incoraggiamento a proseguire gli studi fino ai gradi più elevati.

Questo ci porta a discutere brevemente dell’università. Nella popolazione più giovane, compresa tra 25 e 34 anni, la quota che in Italia completa un corso di studi post-secondari, nonostante il
significativo recupero negli anni più recenti sulla spinta nel nuovo ordinamento del
2002, è ancora al di sotto della media dei principali paesi industriali. I tassi di abbandono
nell’università sono pari al 60 per cento, quasi il doppio rispetto alla media degli stessi paesi. L’incidenza dei laureati che conseguono un titolo di specializzazione post-laurea permane in Italia
molto bassa, collocando il nostro paese alla quart’ultima posizione fra i paesi dell’OCSE. Il recente incremento nel numero di laureati si è concentrato nei nuovi percorsi a breve durata. Nello scorso biennio, le nuove iscrizioni si sono indirizzate soprattutto verso le aree giuridiche e
politico-sociali.

Più in generale, la composizione per corso di studi degli studenti universitari italiani appare sbilanciata, nel confronto internazionale, verso le discipline umanistiche e sociali a scapito di quelle tecniche e scientifiche. Parte del fenomeno è da imputare al fatto che negli
altri paesi i diplomi universitari di durata ridotta sono, diversamente che in Italia, prevalentemente orientati verso lo studio delle materie tecniche. Ma un’altra parte della spiegazione sta nelle elevate rendite di cui godono alcune professioni, rendite
che distorcono le scelte delle famiglie, e nella insufficiente domanda di qualifiche tecnico-scientifiche alte da parte delle imprese.

Le risorse pubbliche destinate all’istruzione post-secondaria sono relativamente minori in Italia che in molti altri paesi avanzati. Questo è anche il contraltare delle maggiori risorse destinate all’istruzione primaria e secondaria. La scelta politica di fondo è stata quella di
privilegiare i primi ordini scolastici a scapito dell’investimento in conoscenze avanzate. Non è una scelta lungimirantein un mondo in cui l’innovazione è la chiave di volta dello sviluppo.

Le risorse pubbliche impiegate in Italia appaiono ancora minori nel confronto con quelle messe in gioco nei sistemi universitari di stampo anglosassone, che pure vedono la prevalenza di atenei privati. E’ però diversa la forma che assumono gli interventi: ad esempio, negli Stati
Uniti prevale il finanziamento diretto degli studenti meritevoli e delle loro famiglie, attraverso borse di studio e prestiti personali; in Italia, come nel resto dell’Europa continentale, è di gran lunga prevalente il finanziamento delle strutture universitarie.

4. Linee evolutive
Nessuno dovrebbe ormai aver dubbi in Italia sull’urgenza di rimettere in moto la crescita economica. Il vivace spunto di ripresa congiunturale a cui stiamo assistendo non è certo sufficiente ad avviare una rapida soluzione dei difetti strutturali del sistema
produttivo italiano.

Per le ragioni che ho provato fin qui ad elencare, l’istruzione è uno dei più importanti capitoli
di un’azione di riforma volta a modificare il contesto in cui è inserito quel sistema.
In un’economia moderna il settore pubblico organizza e regola il mercato, produce beni pubblici, corregge le esternalità. Nel caso dell’istruzione questi principi vanno applicati tenendo conto della specificità e della particolare complessità del comparto.

Una efficace politica dell’istruzione deve conciliare l’eccellenza con l’equa diffusione delle opportunità di istruirsi nella misura massima desiderata. Non vi è conflitto fra questi due obiettivi, purché il soggetto pubblico persegua l’obiettivo di livellare le opportunità
di partenza e compia scelte gestionali che permettano anche al mercato di selezionare l’eccellenza.
Sul successo scolastico incidono significativamente le condizioni della famiglia di provenienza. Il nostro paese appare da questo punto di vista socialmente quasi immobile. La stessa probabilità di
conseguire una laurea dipende dalla qualità dell’istruzione precedente, ma se questa è
a volte insufficiente, come oggi in Italia, pesa fortemente l’ambiente socio-economico della
famiglia. Troppo poco è cambiato sotto questo profilo da quando, quarant’anni fa, Don Milani sollevava, pur in altri contesti, la stessa questione, forte della sua esperienza con i ragazzi della
scuola di Barbiana. Garantire a tutti i giovani le medesime opportunità di successo
nell’apprendimento, purché si adoperino per meritarlo, è la chiave per innalzare insieme l’efficienza e l’equità nel campo dell’istruzione. Entrambi gli obiettivi possono essere perseguiti in vari modi fra loro complementari. Nella scuola può essere utile aumentare la concorrenza fra gli istituti, sia nell’ambito pubblicosia in quello privato, con modalità di finanziamento che da un
lato premino le scuole migliori e dall’altro trasferiscano risorse direttamente alle famiglie per ampliarne la possibilità di scelta.

L’informazione che guida le famiglie nelle scelte scolastiche appare insufficiente: oltre alla prospettiva di ottenere un diploma uguale per tutti, vanno loro offerti criteri uniformi di valutazione, che permettano scelte mirate. Va eliminato l’incentivo perverso, per famiglie e scuole, a colludere nell’abbassare gli standard qualitativi dell’insegnamento, specialmente se
il finanziamento rimane legato esclusivamente al numero di iscrizioni. I primi passi verso
lo sviluppo di un articolato sistema di valutazione già presenti nel nostro ordinamento meritano di essere ulteriormente sviluppati, anche per indirizzare più consapevolmente l’azione pubblica di governo e di riforma del sistema scolastico. Considerazioni non dissimili valgono per l’università, istituzione essenziale per una economia che voglia restare a pieno titolo nel novero di quelle avanzate. Negli anni recenti importanti interventi hanno interessato l’università italiana. Per la prima volta si è proceduto a una valutazione della qualità dell’attività di ricerca. Nonostante
tutte le difficoltà di misurazione, essa può essere utilizzata in tempi brevi per orientare i finanziamenti pubblici destinati ai singoli atenei. E’ importante che il lavoro svolto non si tramuti in un’occasione persa. La trasparenza e il pubblico accesso al processo di valutazione
contribuiscono a rafforzare il confronto tra le università, accrescendo la consapevolezza delle scelte degli studenti, soprattutto di quelli meno inseriti nei circuiti informativi più ricchi. E’ auspicabile che ciò costituisca il primo gradino di un’azione tesa a stimolare la
concorrenza tra università, accrescendo gli incentivi all’innalzamento degli standard di qualità nella ricerca e nella didattica, nella selezione dei docenti. Nella scuola, nell’università, una più esplicita, consapevole apertura al merito evita che siano mortificati i talenti migliori, se assistita da opportune misure di sostegno degli studenti meritevoli non abbienti.

Il riconoscimento del merito non è garanzia di equità, ma, senza, la società è sicuramente più iniqua, perché accentua la discriminazione generata dalle condizioni di partenza; allo stesso tempo,è anche più povera, perché spreca le sue risorse.

Sapremo ritrovare, ne sono convinto, l’unità d’intenti che sola può far progredire l’istruzione
del Paese, quell’unità su cui, a partire dal dopoguerra, è stato fondato il progresso del sistema educativo italiano.


Fonte: http://www.corriere.it/Primo_Piano/Editoriali/2006/11_Novembre/13/derita.shtml
La scuola di Draghi
La sortita del Governatore, gli impegni dei ministri
di
Giuseppe de Rita

Misericordia, anche lui... Credo che questa sia stata la reazione di qualche smagato opinionista di fronte alla potenziale iscrizione anche di Mario Draghi alla lunga schiera di coloro che da anni ripetono la nobile solfa della decisiva centralità della formazione, dell'innovazione, della ricerca, del fattore umano, della società della conoscenza; senza mai uscire da un'intenzionalità così generica da avere come unico sbocco concreto la richiesta, non sempre corrisposta, di maggiori risorse finanziarie alla scuola, all'università, agli enti di ricerca. Eppure l'esortazione, ancorché inconcludente, resta la tendenza retorica di tanti politici, accademici, uomini delle istituzioni, esponenti delle rappresentanze imprenditoriali e sindacali, amministratori locali, presidenti di club e associazioni di vario tipo. Per fortuna, nella sua lectio all'università di Roma, Mario Draghi si è sottratto alla tentazione puramente esortativa; anzi la lettura in filigrana del suo testo dimostra una coperta ma determinata volontà di uscire dall'esortazione generica e di mettere a fuoco i trascorsi e l'innovativo sviluppo del nostro sistema formativo, andando coraggiosamente in controtendenza rispetto ai pesanti interessi e poteri oggi in gioco. Tre sono le opzioni di Draghi. La prima, esplicita, è quella di immettere nel sistema delle massicce dosi di competizione e concorrenza fra sedi e processi di formazione; la seconda, coperta, è che tali sedi e processi devono avere forte autonomia organizzativa e al limite strategica; la terza, semi- esplicita ma conseguente alle precedenti, è potenziare la responsabilità che (per garantire autonomia e competizione) l'azione pubblica deve esercitare sui contenuti e sulle procedure di misurazione e valutazione dell'efficienza nonché dell'efficacia delle varie sedi formative. Rileggiamoci queste tre opzioni. Sono di piana razionalità, com'è nello stile di Draghi, ma sono anche sottilmente «faziose» cioè volutamente in controtendenza.
Chi gestisce oggi la formazione in Italia non ama la logica della competizione (il sistema è pubblico, unitario e uniforme); non ama l'autonomia delle sedi formative, come dimostra il penoso trascinarsi da vent'anni delle istanze di autonomia scolastica e universitaria; non ama la cultura della misurazione e della valutazione, anzi la vede come una tecnocratica invasione nella dignità del formatore e nella libertà del ricercatore. Ma proprio per questa triplice opposizione è meritoria la provocazione di Draghi: i gestori del sistema (politici o sindacalisti che siano) potranno in futuro non tener conto delle sue tre opzioni e continuare a privilegiare la dimensione accentrata, uniforme, non competitiva e impiegatizia del sistema; ma avranno sempre meno la copertura loro garantita dalla ricorrente magniloquenza del retorico primato del fattore umano e dell'innovazione, della scuola e della ricerca. Ma c'è un altro aspetto che merita di essere sottolineato ancorché Draghi lo evochi con mano leggera: il recupero di una buona piattaforma di cultura generalista, forse il grande tema del futuro se si vuole capire quale istruzione si debba prioritariamente perseguire. Scrive Draghi: «La formazione può essere maggiormente indirizzata verso l'acquisizione di abilità generali che siano anche di incoraggiamento a perseguire gli studi fino a gradi più elevati» e (aggiungo io) a fornire ai singoli quell'elasticità mentale che oggi è necessaria in ogni professione e per tutta la vita di lavoro.
Anche qui la provocazione faziosa è ben leggibile, se si pensa alla ubriacatura di specializzazioni che ha colpito la scuola e più ancora l'università italiana (oltre 3 mila corsi di laurea nel primo triennio) e che ha fatto dimenticare che senza una buona cultura di base siamo preda del genericismo più fatuo e i giovani non riescono neppure a scegliere consapevolmente un qualsiasi percorso specializzato (ne sono doloroso esempio vivente i quasi 60 mila iscritti a Scienze delle Comunicazioni). Se in conclusione la sortita di Draghi non verrà derubricata a evento ufficialmondano, essa impone un ripensamento di fondo di tutta la nostra politica formativa. Mi domando se qualcuno avrà voglia di farlo, oltre e dopo i condizionamenti finanziari e sindacali che si intrecciano nell'attuale Finanziaria; forse non sarebbe male che, su impulso di Prodi, i ministri competenti si accordassero per redigere una «nota aggiuntiva» che impostasse un ormai indispensabile percorso di lungo periodo per lo sviluppo formativo. È infatti incivile che si resti ancora per molto a declamare il primato dell'innovazione culturale, senza però innovare gli strumenti a essa dedicati.

venerdì 29 ottobre 2010

LE 10 REGOLE di Noam Chomsky PER DISINFORMARE L'OPINIONE PUBBLICA

1-La strategia della distrazione
L’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dei cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti.La strategia della distrazione è anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, l’economia, la psicologia, la neurobiologia e la cibernetica. Mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza vera importanza.
Mantenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza nessun tempo per pensare, di ritorno alla fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).
2- Creare problemi e poi offrire le soluzioni.
Questo metodo è anche chiamato “problema reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che il pubblico sia chi richiede le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.
3- La strategia della gradualità.
Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, a contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione in massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta. Lo smantellamento della scuola pubblica non è, ad esempio, iniziato in questi ultimi anni ma almeno a partire dal II dopoguerra e il punto culminante lo ha forse trovato negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, purtroppo anche con il contributo o l’inazione dei pochi ministri della Pubblica Istruzione di sinistra e dei sindacati.
4- La strategia del differire.
Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato. Prima, perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente. Secondo, perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.
5- Rivolgersi al pubblico come ai bambini.
La maggior parte della pubblicità diretta al gran pubblico, usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, molte volte vicino alla debolezza, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente mentale. Quando più si cerca di ingannare lo spettatore più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se avesse 12 anni o meno, allora, in base alla suggestionabilità, lei tenderà, con certa probabilità, ad una risposta o reazione anche sprovvista di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno” (vedere “Armi silenziosi per guerre tranquille”).
6- Usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione.
Sfruttate l’emozione è una tecnica classica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, infine, il senso critico dell’individuo. Inoltre, l’uso del registro emotivo permette aprire la porta d’accesso all’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o indurre comportamenti.
7- Mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella mediocrità.
Far si che il pubblico sia incapace di comprendere le tecnologie ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù.
“La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza dell’ignoranza che pianifica tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare dalle classi inferiori”.
8- Stimolare il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità.
Spingere il pubblico a ritenere che è di moda essere stupidi, volgari e ignoranti …
9- Rafforzare l’auto-colpevolezza.
Far credere all’individuo che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza, delle sue capacità o dei suoi sforzi. Così, invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e s’incolpa, cosa che crea a sua volta uno stato depressivo, uno dei cui effetti è l’inibizione della sua azione. E senza azione non c’è rivoluzione!
10- Conoscere gli individui meglio di quanto loro stessi si conoscono.
Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno generato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élites dominanti. Grazie alla biologia, la neurobiologia, e la psicologia applicata, il “sistema” ha goduto di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia nella sua forma fisica che psichica. Il sistema è riuscito a conoscere meglio l’individuo comune di quanto egli stesso si conosca. Questo significa che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un controllo maggiore ed un gran potere sugli individui, maggiore di quello che lo stesso individuo esercita su sé stesso.